Dopo più di vent’anni dal film che ha riscritto le regole del cinema apocalittico, 28 Giorni Dopo, Danny Boyle torna a dirigere un nuovo, attesissimo capitolo. 28 Anni Dopo, da oggi nelle sale italiane, ci riporta in un Regno Unito devastato dal virus della rabbia, ormai da quasi tre decenni tagliato fuori dal resto del mondo. Il contagio, fuoriuscito da un laboratorio di armi biologiche, è stato respinto dall’Europa continentale, che ha chiuso ogni collegamento con la terra britannica, lasciando i superstiti in quarantena permanente.
Tra questi c’è una piccola comunità che ha trovato rifugio su un’isola al largo della costa nord-orientale dell’Inghilterra, collegata alla terraferma solo da un passaggio percorribile a piedi con la bassa marea. Un luogo austero ma organizzato, dove si vive senza elettricità né armi da fuoco, e dove vige una regola antica: per diventare adulti bisogna affrontare il proprio primo infetto e ucciderlo. Così, quando il giovane Spike compie dodici anni, suo padre Jamie lo accompagna sulla terraferma per il suo “battesimo di sangue”. Una missione che però si rivelerà tutt’altro che simbolica.
Quello che doveva essere un rito di passaggio diventa per Spike un viaggio pieno di rivelazioni. Scoprirà che il mondo fuori è molto più complesso e frammentato di quanto gli fosse stato raccontato, e che il percorso impostogli dal padre non è l’unica strada possibile. Ma soprattutto, emergerà una speranza: tra le rovine abitate dagli infetti, potrebbe esserci ancora qualcuno capace di curare la madre malata, Isla, rimasta sull’isola.
Proprio in questo contesto il film inserisce uno dei suoi passaggi più toccanti. Quando Jamie e Spike incontrano l’ultimo medico sopravvissuto della loro comunità, l’uomo visita Isla e diagnostica un tumore incurabile. È lui a raccontare il senso del “memento mori”: non come spauracchio della morte, ma come invito a ricordare, a dare valore alla vita, ad amare chi ci è accanto finché è possibile. A rafforzare il messaggio, un monumento simbolico costruito dallo stesso medico per onorare i morti, un gesto semplice e potente che rompe la tensione e restituisce un’umanità profonda all’interno di un mondo apparentemente perduto.
Anche dal punto di vista visivo 28 Anni Dopo è un esperimento radicale. Boyle ha scelto di affiancare alle cineprese classiche strumenti più immediati come iPhone, bodycam montate sugli attori e droni, per dare alle scene d’azione un’intensità visiva e immersiva senza filtri. Ne viene fuori un’estetica nervosa, reale, che restituisce lo spaesamento e l’ansia di un mondo dove nulla è sicuro.
28 Anni Dopo non è un semplice sequel, e non è nemmeno un film horror nel senso più convenzionale. È un’opera che parla di isolamento, di sopravvivenza, di riti arcaici e rotture generazionali. Ma soprattutto, è un film che si prende il tempo per riflettere su ciò che resta dell’amore, della cura, della memoria. Anche quando tutto intorno sembra implodere.
Jacopo Saliani
